Abdoulaye e Mamadou non sono morti, recensione
di Carmen Pellegrinelli
25/5/2025
È tema centrale dei dibattiti teatrali negli ultimi anni, la forza di cambiamento sociale ed etico del teatro. Quest’ affermazione di per sé vera, si scontra spesso con la realtà, che vede le compagnie teatrali proporre spettacoli dai grandi messaggi sociali senza fare i conti con le proprie dinamiche interne ed esterne, spesso tossiche e per nulla in linea con i contenuti proposti. Come dire il percorso che coniuga estetica ed etica (grande tema) non è così scontato e lineare.
Però mentre un tempo si privilegiava la dimensione estetica in nome della purezza dell’arte, oggi anche la dimensione etica diventa pubblicamente rilevante. Tanto che il valore di uno spettacolo non può essere disgiunto dal percorso di un’artista o di una compagnia. E per percorso non intendo solo quello artistico, ma anche quello etico e umano. Intendo la gestione delle relazioni, delle fatiche, dei soldi che fare questo mestiere difficilissimo, complesso e poco pagato comporta. Il discorso si potrebbe sintetizzare nella parola: coerenza.
Ed è da questa parola che voglio partire per parlare di Teatro Periferico una realtà teatrale che da anni promuove la cultura come strumento di coesione e trasformazione sociale con una coerenza e radicalità rara. Ne ho avuto ennesima conferma quando ho visto “Abdoulaye e Mamadou non sono morti”, con la regia di Paola Manfredi e la drammaturgia di Dario Villa, andato in scena il 18 maggio al Teatro di Rosciate, all’interno del bel e d articolato festival “Up to you” della Compagnia Teatrale “Qui e Ora”.
Lo spettacolo è tratto dalla storia del percorso migratorio di Abdoulaye Ba, ragazzo senegalese costretto a scappare da Dakar a causa di scontri tra polizia e studenti e a intraprendere un lungo e difficile viaggio migratorio che lo porta in Italia nel 2016. La creazione dello spettacolo è possibile proprio perché Teatro Periferico, in un percorso di aderenza al messaggio etico che incarna, offre una casa materiale e spirituale ad Abdoulaye Ba affinché attraverso la parola e il teatro, possa raccontare quanto ha vissuto nel suo percorso migratorio. Questo lavoro confluisce in un libro autobiografico di Abdoulaye Ba dal titolo “In Inferna. Un viaggio dal Senegal al Nord Italia. Uno sguardo sulla colonizzazione dell'Africa”, pubblicato dalla casa editrice Sensibili alle Foglie nel 2021 e curata da Dario Villa. Poi prende forma nel bellissimo “Abdoulaye e Mamadou non sono morti”, che debutta prima in forma di lettura e poi come spettacolo.
Nella prima parte dello spettacolo, vediamo Abdoulaye su un gommone diretto in Europa alla deriva nel Mar Mediterraneo. La febbre gli fa credere di essere accudito dallo spirito di suo padre, scomparso quando lui aveva solo 13 anni. In realtà, è il suo amico Mamadou a prendersi cura di lui, mentre sull’imbarcazione altre persone affrontano il loro destino. Ad accompagnarli c’è la rappresentazione dello spirito della morte interpretato dalla magnifica Bintou Ouattara. Tutti e tre gli attori sono talenti incredibili, di una verità disarmante. Da spettatori capiamo immediatamente che quello a cui stiamo assistendo è una testimonianza e non un pezzo di interpretato. Nella tragicità della situazione la drammaturgia è equilibrata, mescola parti tragiche a parti comiche (molto bravo Siaka Conde nelle parti più leggere) e soprattutto le inserisce in un orizzonte culturale ampio legato alla cultura subsahariana che dona respiro alla narrazione. Molto belle ed evocatove anche le parti musicali e cantate a cura di Camilla Barbarito. La scena è semplice, come deve essere, con una pedana che ricrea la barca e con movimenti scenici curati, essenziali e narrativamente forti. Un esempio di quando la regia è generosamente a servizio del racconto e non il contrario.
Nella seconda parte con un’asciuttezza e una drittezza rara, Dario Villa, drammaturgo dello spettacolo racconta i fatti, ovvero quante persone sono morte nel mediterraneo tra il 1993 e il 2023. Qui la pedana si alza, nasconde gli attori e l’attenzione è tutta per il narratore, che si fa testimone di una tragedia quasi indicibile. A morire nel Mediterraneo sono state 52.760 persone.
I dati raccontati da Villa si riferiscono all’ ultima versione aggiornata dell’opera “The List” dell'artista turca Banu Cennetoğlu. “The List” è un progetto iniziato da Cennetoğlu nel 2007 in collaborazione con l'organizzazione UNITED for Intercultural Action, una rete europea contro il nazionalismo e il razzismo. L'opera consiste in un elenco dettagliato e aggiornato delle persone migranti e rifugiate morte tentando di raggiungere l'Europa, spesso attraversando il Mediterraneo. Include nomi, età (quando disponibili), cause e luoghi della morte.
Il gioco scenico è semplice. Villa chiede al pubblico di spendere pochi minuti nell’ascolto dei nomi di “The List”.
Ascoltare in fila tutti questi nomi è un esercizio di consapevolezza che fa male e ci fa capire quanto poco sappiamo o vogliamo sapere sul dramma delle migrazioni forzate.
Questa lista racconta di noi del nostro privilegio e della nostra impreparazione.
Questa lista è uno shock. È un manifesto di morte. È testimonianza da abbracciare.
Come facciamo a concepire un numero così ampio di morti?
Grande come i Settantamila morti in Palestina.
E qui è il punto.
…
“The list” si fa parola dicibile e credibile sul palco perché a pronunciarla non sono attori qualsiasi.
A pronunciarla sono quelle persone lì.
Quelle che hanno vissuto ciò che raccontano.
E quelle che hanno ospitato Abdoulaye nella propria casa per due anni.
che con hanno condiviso nei giorni saperi e pratiche teatrali.
che hanno dato a lui, ma anche loro stesse, la possibilità di implicarsi, raccontare, ascoltare e ricominciare.
Solo così nel 2025, l’estetica della scena può abbracciare l’etica.
“Je Vous Aime” di Anselmo e Pranovi, recensione
di Carmen Pellegrinelli
Partenza con il botto ieri sera a Orlando (Festival queer di Bergamo), iniziata con l’emozionante discorso di Elisabetta Consonni e Nadia Ghisalberti nella sala dell’Orologio di Piazza della Libertà. In questo luogo simbolico perché una delle sedi fasciste del governo cittadino, che rivive ora come luogo di cultura ci siamo immersi nella tessitura sonora sperimentale di Lagorio-Barachetti. Una tessitura che intendo come un piccolo manifesto programmatico di questo festival: abituatevi ad ascoltare e percepire il mondo decentrando i sensi umanocentrici e vivendo la moltitudine che siamo. Ed è con questo spirito che, poi in auditorium, abbiamo assistito ad uno spettacolo che in effetti ci ha molto de-centrate, dandoci quella sensazione di eccitazione che si ha quando si trovano delle lenti nuove per guardare il mondo.
“Je Vous Aime”, con in scena le bravissime Diana Anselmo e Sara Pranovi, non solo è confezionato con cura, ma ha il pregio di raccontare la storia di una controversia, che sintetizza molte delle questioni su cui le filosofie e le sociologie contemporanee si stanno interrogando: i discorsi e i dispositivi prodotti dal controllo dei corpi, la distinzione tra corpo e mente, l’attivismo come risorsa per produrre saperi critici, le anti-storie e le culture che emergono dalle anti storie. La controversia riguarda il divieto da parte delle istituzioni scolastiche di fine Ottocento, italiane e francesi di lasciar comunicare le persone non udenti e parlanti attraverso i linguaggi dei segni. A partire da quest’ingiunzione, l’educazione delle persone non udenti si è modellata sulla comunicazione orale, sull’obbligo di usare la voce e leggere il labiale. In questo apparato controllante, sul quale si sono configurati i saperi scolastici ed educativi per le persone non udenti fino a tempi recentissimi e in molti casi ancora oggi, è stato letteralmente vietato l’uso del corpo per comunicare. Non era permesso quindi “segnare”, ovvero usare la lingua dei segni, con conseguenze devastanti per le persone non-udenti e per le loro comunità.
“Segnare” significa comunicare con il corpo. Ma “segnare” significa anche usare il corpo per guardare il mondo e interagire con le sue molteplicità. “Segnare” è assumere una postura epistemologica (che riguarda la creazione di sapere) in cui il primato del verbo, della parola orale e scritta viene meno e con esso l’ossessiva distinzione fallica tra mente e corpo. Addio Platone, Cartesio, Kant, Hegel e Heidegger. Tutto qui è da riscrivere, come dice ad un certo punto nella performance Anselmo performer sordo, attivista, e come si definisce lui essere umano improvvisato (fichissimo, come lo definirei io). Ci sono nuove mappe da costruire, anti-storie da unire per creare una grande cartografia che dica, ciò che i discorsi coercitivi e silenzianti sui corpi hanno impedito di dire. “Je Vous Aime” è per me un’opera che fa parte di questa grande riscrittura politica, non solo uno spettacolo, ma una riflessione sulla natura della conoscenza. Una riflessione che ci fa immaginare il brivido di non subire più i discorsi deliranti e fascisti della scienza-religione-capitale sui nostri corpi, ma di essere produttori di cultura, conoscenza, speranza a partire dai nostri posizionamenti.
“Chthulucene. L'umana parentela” a Orlando: come divenire pluralità
Libera intervista ad Alexandra Lagorio e Luca Barachetti
di Carmen Pellegrinelli
Il 3 maggio, all’interno del Festival Orlando, andrà in scena la performance “Chthulucene. L’umana parentela” di e con Alexandra Lagorio (chitarra elettrica, oggetti) e Luca Barachetti (carriola preparata, oggetti, gesti vocali). Si tratta di un concerto d’improvvisazione, dove i performer dialogando fra di loro, creano paesaggi sonori ispirati e abitati dai mondi concettuali della mitica filosofa Donna Haraway.
Al cuore di “Chthulucene. L’umana parentela”, c’è il concetto haraway-iano di “fare parentele” come modo per ripensare le nostre relazioni con gli altri esseri del mondo, al di là delle nozioni tradizionali di famiglia o di confini di specie. “Chthulucene” è un neologismo creato da Haraway attraverso le radici delle parole greche khthôn (morte) e kainos (tempo presente) per indicare: “una tipologia di tempo-spazio utile per imparare a restare a contatto con il vivere e il morire in forma responso-abile su una Terra danneggiata e ferita” (Haraway 2019, pag 7). “Fare parentele” significa in questo contesto riconoscere e coltivare relazioni di cura, responsabilità e benessere reciproco con esseri ed entità diverse.
“Chthulucene. L’umana parentela” esplora quindi il tema della tentacolarità extra-famigliare fra esseri umani, come modalità creativa per stare in relazione al pianeta in questi tempi “confusi, torbidi e inquieti”, come Haraway li definisce (Haraway 2019, pag 7). La performance risponde all’invito di Orlando che in questa sua undicesima edizione si chiede – proprio sotto il segno delle riflessioni di Haraway – come moltiplicare relazioni plurali, inventare famiglie e divenire pluralità.
Ho chiesto ad Alexandra Lagorio e Luca Barachetti di entrare dentro la trama sonora di “Chthulucene. L’umana parentela” per spiegare come hanno tradotto i temi legati all'interdipendenza e l'interconnessione di tutte le forme di vita dentro la loro performance sonora e musicale. Alexandra Lagorio e Luca Barachetti sono due musicisti-performer con esperienze e provenienze differenti accomunati da una comune ricerca dentro T¥RSO, collettivo musicale indipendente da loro fondato che esplora le relazioni tra musica, performance e moltiforme sonorità e che coinvolge diversi musicisti di spessore (www.tyrso.it). Alla performance “partecipano” anche le voci registrate della sottoscritta, di Enrico Ruggeri Zambaiti e di Sole Fontanella.
CP: Di cosa ‘parla’ la performance? Riuscite a raccontarne in passaggi principali?
LB: “Chthulucene. L'umana parentela" è una riscrittura della performance originaria "Chthulucene", entrambe nascono dagli ultimi scritti di Donna Haraway: questa nuova versione debutterà a Orlando. Se nella versione originaria la performance era, nella prima parte, un'elegia sonora alla terra infetta e nella seconda una rappresentazione sonora di quei "mostri" ctoni e tentacolari che per Donna Haraway possono essere una modalità di sopravvivenza in un pianeta infetto – i "mostri" sono tutto ciò che è vivente e non vivente ma extra-umano; in questa nuova versione rimane identica la prima parte e cambia in modo sensibile e significativo la seconda, che sarà una rappresentazione sonora di quella che chiamiamo "melancolia". Una parola in cui racchiudiamo una serie di conseguenze psico-esistenziali date dal mondo dis-umano (e quindi ancora una volta infetto): la malinconia, la depressione, il burnout e via dicendo. Il tutto sfocia in una sorta di radura sonora di "rinascita", che coincide con il record vocale di una mia poesia "Simpoietico", anch'essa riscritta per questa nuova versione di "Chthulucene". Riassumendo: possiamo contrapporre al nostro tempo esistenzialmente infetto l’interdipendenza con l'Altro-umano, al di là di strutture culturali tipiche occidentali, come la famiglia, che spesso è tutt'altro che un aiuto nel vivere il contemporaneo.
CP: A proposito di famiglie e parentele, il vostro è un discorso sonoro sulla tentacolarità extra-famigliare. Come, quindi, questo “fare parentele” si traduce in suoni, musica, vibrazioni, rumori, vocabolari rumoros-musicali?
AL: Penso che a livello sonoro quello che meglio può rappresentare la tentacolarità extra-famigliare, le parentele, sia proprio il legame tra il suono che produce la chitarra e quello che produce la carriola. Da una parte abbiamo delle melodie (anche se a volte un po' storte), un suono più confortante e a cui siamo abituati, mentre dall'altro c'è la carriola che viene suonata in un modo inaspettato: non viene percossa ma proprio "suonata" producendo rumori diversi, talvolta profondi altre volte acuti. Alcune volte proprio non ci si crede che alcuni suoni siano fatti con la carriola! Eppure, questi due oggetti così diversi e apparentemente appartenenti a mondi lontanissimi si incontro e stabiliscono una relazione profonda, comunicano, entrano in relazione tra loro. Alla fine della performance si scopre che riescono ad essere in armonia tra loro, anche se non appartenenti non dico alla stessa famiglia di strumenti, ma proprio alla stessa famiglia di "oggetti".
LB: Aggiungo una piccola cosa tecnica: questo dialogo avviene sia nella prima che nella seconda parte; quindi, quando di fatto stiamo suonando (rappresentando) due realtà negative (il mondo infetto, la melanconia). Nella seconda però io, con i microfoni a contatto della mia carriola, che sono oggetti molto sensibili al suono, anche quello non prodotto dalla carriola, cerco di "catturare" e processare alcuni suoni della chitarra. Ciò avviene in modo non sempre uguale, perché le due parti sono improvvisative; quindi, certe volte il risultato è migliore a livello sonoro. Ci tengo a dire che nel suonare la mia carriola preparata non uso elettronica digitale, ma solo oggetti ed effetti di chitarra.
CP: Cosa intendi quando dici ‘catturare i suoni della chitarra’?
LB: Il microfono a contatto prende il suono della chitarra, quando mi accorgo che è un suono interessante, evocativo faccio partire una registrazione, un campionamento di quel suono e poi, in base a come è, lo manipolo con i pedali che utilizzo per la carriola. Va sottolineato che suoniamo in cuffia, quindi c'è un rapporto più "vicino", profondo e isolante verso le sonorità che reciprocamente produciamo.
CP: Intendendo l’improvvisazione come un’arte esplorativa che si basa su una pratica e non come qualcosa di estemporaneo, il dialogo tra questi due strumenti è in ogni performance improvvisato? Come ci navigate voi dentro a quest’improvvisazione come essere umani? Cosa sentite? Com’è questo viaggio?
LB: All'interno delle due cornici che abbiamo descritto prima, e tenendo conto di cosa vogliamo rappresentare a livello sonoro, le due parti internamente sono improvvisative. È di fatto una pratica: detta in parole povere è la pratica del "vediamo cosa succede se faccio così", è una forma di esplorazione delle possibilità della chitarra e della carriola; se ci pensiamo bene, è anche una forma di trascendenza materiale e terrena, è il continuo tentativo di raggiungere un'inaspettata e sorprendente (prima di tutto per noi) utopia sonora, utopia sonora che è sicuramente più manifesta nel finale, dove a fare da padrone sono la chitarra e i tubi sonori corrugati, una sorta di marchio che chiude entrambe le performance.
AL: Personalmente è un viaggio che richiede una grande concentrazione e un attento ascolto dell'altro. Occorre concentrazione intesa come essere completamente presenti nel gesto del suonare. L'ascolto dell'altro è necessario invece per creare quella relazione sonora di cui parlavo prima. Occorre guardarsi, capire e "sentire" cosa sta facendo l'altro in modo da creare risposte e intrecci sonori che abbiano un significato non solo concettuale ma anche profondo ed emotivo.
CP: Parliamo di malinconia, come la malinconia può essere generativa? Chi sono i mostri interiori?
AL: La malinconia è generativa. Uscendo completamente dall’ambito in cui ci stiamo muovendo, mi viene in mente la famosa battuta di Bruno Lauzi "Quando sto bene esco, mica mi metto a scrivere canzoni!". Diciamo che tutto quello che è dolore, malessere, malinconia, può essere "spurgato" fuori in senso generativo sottoforma di bellezza o di qualcosa che prova ad avvicinarsi ad essa. Si prova a liberarsi da una sensazione negativa, provandola a condividere e trasformandola in qualcosa d'altro, qualcosa che invece di isolare, può creare emozioni e quindi sentimenti di vicinanza con l'altro, di legame, o se vogliamo, ancora, di parentele. Per quanto riguarda i mostri interiori devo dire che sono stata un po' in difficoltà. Era molto facile per me pensare ai mostri "esteriori" (da grande appassionata di Lovecraft): quegli immaginari, da incubo, ma anche quelli reali del nostro tempo. Più difficile avere a che fare con i mostri interiori che ci obbligano a fare i conti sul modo in cui viviamo. Per me i mostri interiori sono l'ansia, il senso di inadeguatezza, le paure, tutto quello insomma che ci impedisce di essere completamente liberi.
LB: Quello che suoniamo cerca di rappresentare due piani: uno concettuale e uno emotivo. Ma va detto che dei due prevale quello emotivo, saremmo quantomeno dei presuntosi a volter rappresentare con la musica il pensiero complesso di Donna Haraway: con ciò che suoniamo cerchiamo soprattutto di evocare degli stati d'animo, che evolvono. Per la parte concettuale ci vengono in aiuto le parole. Per "Chthulucene. L'umana parentela" ci saranno quattro momenti di record vocali: un verso di Shakespeare (detto da Enrico Ruggeri Zambaiti), collegato a uno stralcio del libro di Haraway "Chthulucene. Sopravvivere a un pianeta infetti" (detto da te), una mia poesia intitolata "Simpoietico" (detta da Sole Fontanella) e un ritorno del verso di Shakespeare iniziale (detto ancora da te).
CP: Leggo dalla presentazione della performane che alla fine ci sarà un “gioco di filo”, che simboleggia proprio questa generazione parentale fra persone, i fili che traducono la parentela perché sono importanti?
LB: Ci sarà una versione simbolica di quello che Haraway chiama "gioco di filo". È una cosa molto semplice quanto, crediamo, intensa: rappresenta l'interdipendenza che c'è fra le persone, tutte, da quelle più vicine a noi a quelle più lontane. Non diciamo di più, anche perché la riuscita del "gioco di filo" dipende da quante persone ci sono… in ogni caso ci siamo muniti di ottanta metri di filo.
CP: Cosa significa per voi partecipare a Orlando?
LB: Quando Elisabetta Consonni è venuta a vedere la nostra performance "Chthulucene" eravamo molto felici. Quando poi ci ha detto che avremmo potuto partecipare a questa edizione del festival ancora di più: seguiamo e amiamo Orlando da anni, è incredibile che a Bergamo avvenga una cosa del genere. Oltre a ciò, però, Orlando è stato importante perché ci ha chiesto di muovere la nostra performance verso una maggiore affinità con il tema del festival di quest'anno, le parentele extra-famigliari. Senza Orlando – che per noi è una stupefacente punto di arrivo e ripartenza: ci dà una conferma importante di quello che facciamo – “Chthulucene. L'umana parentela", molto semplicemente, non esisterebbe. Il nostro sarà il primo appuntamento del festival, poi torneremo spettatori. Non prima di avere ringraziato per questa possibilità.
AL: Orlando è un festival che ci ha dato molto come spettatori in questi anni, speriamo questa volta di restituire noi qualcosa di questo al festival. Siamo molto emozionati!
La performance che dura circa 40 minuti, si terrà venerdì 3 Maggio alle ore 19, a Bergamo presso la Sala dell’Orologio in piazza della Libertà, 7. Prima della performance ci sarà un aperitivo di benvenuto. Visto che i posti sono limitati è consigliata la prenotazione. È possibile prenotare scrivendo a prenotazioni@orlandofestival.it.
Bibliografia
Haraway, D. J. (2019). Chthulucene: Sopravvivere su un pianeta infetto. Nero.
Haraway, D. J. (2019). Le promesse dei mostri. Una politica rigeneratrice per l'alterità inappropriata. DeriveApprodi
Zoja, L. (2009). La morte del prossimo. Einaudi.
Han B. (2017). L’espulsione dell’altro. Nottetempo
Il Corpo Politico di “Stone” di Luca Barachetti
Che cosa c'è oggi di più politico del corpo? Il corpo discusso, oppresso, datificato, addirittura crioconservato per un possibile futuro immortale. Il corpo che segna un'identità obliqua, mai veramente ferma e dunque necessaria di diritti, di tutela e comprensione.
È il corpo, come strumento sonante e dissonante, come presenza scenica di densità rara, quello di Laura Mola, unica protagonista dello spettacolo teatrale “Stone”, riscrittura per il palcoscenico che Carmen Pellegrinelli fa di “Stone Butch Blues” – romanzo culto del 1993 scritto dall’attivista lesbica Leslie Feinberg – per il festival Orlando.
Gli spazi intimi di Teatro Caverna portano il pubblico nell'America fra primo e secondo Novecento, '68 compreso. Fra locali gay, case improbabili, storie di sesso e d'amore attraversate da Jess Goldberg, protagonista di una biografia immaginaria che è una sorta di bildungsroman in technicolor. Con una colonna sonora calibrata e fondamentale per la riuscita della narrazione, una scenografia minimale che in certi momenti sfiora l'astrattismo e un testo che è un intenso saliscendi emotivo. Il risultato è una radura di scoperte all'interno della quale Jess cresce, assaggia i manganelli (della polizia) e trova la solidarietà di vittime come lei. Tutt'altro che disposte ad arrendersi, ma in cerca della propria quadra esistenziale in una storia nella quale l'intersezionalità di classismo, razzismo, capitalismo, omofobia e transfobia si mescolano, riportando il pubblico al contemporaneo e andando dentro e oltre la questione LGBTQIA+.
Avrebbe meno forza di quella che ha “Stone” se non vibrasse di -ismi e fobie d'amara attualità e se il corpo al centro della scena non fosse quello di Mola, rara specie di strumento vivente di muscoli, nervi ed espressività al servizio di un testo drammatico e ironico, disperato e vitale, dove ogni ostacolo diventa un passo verso un finale inevitabilmente catartico.
Nel suo unire personale e politico, “Stone” ribadisce che il personale è politico e che i diritti civili e sociali devono andare di pari passo: le rivendicazioni LGBTQIA+ hanno meno peso se non sono contestualizzate in questo tardo capitalismo agli ultimi (violenti) colpi di coda.