“Je Vous Aime” di Anselmo e Pranovi, recensione

Partenza con il botto ieri sera a Orlando (Festival queer di Bergamo), iniziata con l’emozionante discorso di Elisabetta Consonni e Nadia Ghisalberti nella sala dell’Orologio di Piazza della Libertà. In questo luogo simbolico perché una delle sedi fasciste del governo cittadino, che rivive ora come luogo di cultura ci siamo immersi nella tessitura sonora sperimentale di Lagorio-Barachetti. Una tessitura che intendo come un piccolo manifesto programmatico di questo festival: abituatevi ad ascoltare e percepire il mondo decentrando i sensi umanocentrici e vivendo la moltitudine che siamo. Ed è con questo spirito che, poi in auditorium, abbiamo assistito ad uno spettacolo che in effetti ci ha molto de-centrate, dandoci quella sensazione di eccitazione che si ha quando si trovano delle lenti nuove per guardare il mondo.

Je Vous Aime”, con in scena le bravissime Diana Anselmo e Sara Pranovi, non solo è confezionato con cura, ma ha il pregio di raccontare la storia di una controversia, che sintetizza molte delle questioni su cui le filosofie e le sociologie contemporanee si stanno interrogando: i discorsi e i dispositivi prodotti dal controllo dei corpi, la distinzione tra corpo e mente, l’attivismo come risorsa per produrre saperi critici, le anti-storie e le culture che emergono dalle anti storie. La controversia riguarda il divieto da parte delle istituzioni scolastiche di fine Ottocento, italiane e francesi di lasciar comunicare le persone non udenti e parlanti attraverso i linguaggi dei segni. A partire da quest’ingiunzione, l’educazione delle persone non udenti si è modellata sulla comunicazione orale, sull’obbligo di usare la voce e leggere il labiale. In questo apparato controllante, sul quale si sono configurati i saperi scolastici ed educativi per le persone non udenti fino a tempi recentissimi e in molti casi ancora oggi, è stato letteralmente vietato l’uso del corpo per comunicare. Non era permesso quindi “segnare”, ovvero usare la lingua dei segni, con conseguenze devastanti per le persone non-udenti e per le loro comunità.

Segnare” significa comunicare con il corpo. Ma “segnare” significa anche usare il corpo per guardare il mondo e interagire con le sue molteplicità. “Segnare” è assumere una postura epistemologica (che riguarda la creazione di sapere) in cui il primato del verbo, della parola orale e scritta viene meno e con esso l’ossessiva distinzione fallica tra mente e corpo. Addio Platone, Cartesio, Kant, Hegel e Heidegger. Tutto qui è da riscrivere, come dice ad un certo punto nella performance Anselmo performer sordo, attivista, e come si definisce lui essere umano improvvisato (fichissimo, come lo definirei io). Ci sono nuove mappe da costruire, anti-storie da unire per creare una grande cartografia che dica, ciò che i discorsi coercitivi e silenzianti sui corpi hanno impedito di dire. “Je Vous Aime” è per me un’opera che fa parte di questa grande riscrittura politica, non solo uno spettacolo, ma una riflessione sulla natura della conoscenza. Una riflessione che ci fa immaginare il brivido di non subire più i discorsi deliranti e fascisti della scienza-religione-capitale sui nostri corpi, ma di essere produttori di cultura, conoscenza, speranza a partire dai nostri posizionamenti.  

“Chthulucene. L'umana parentela” a Orlando: come divenire pluralità

Libera intervista ad Alexandra Lagorio e Luca Barachetti

di Carmen Pellegrinelli

Il 3 maggio, all’interno del Festival Orlando, andrà in scena la performance “Chthulucene. L’umana parentela” di e con Alexandra Lagorio (chitarra elettrica, oggetti) e Luca Barachetti (carriola preparata, oggetti, gesti vocali). Si tratta di un concerto d’improvvisazione, dove i performer dialogando fra di loro, creano paesaggi sonori ispirati e abitati dai mondi concettuali della mitica filosofa Donna Haraway.

Al cuore di “Chthulucene. L’umana parentela”, c’è il concetto haraway-iano di “fare parentele” come modo per ripensare le nostre relazioni con gli altri esseri del mondo, al di là delle nozioni tradizionali di famiglia o di confini di specie. “Chthulucene” è un neologismo creato da Haraway attraverso le radici delle parole greche khthôn (morte) e kainos (tempo presente) per indicare: “una tipologia di tempo-spazio utile per imparare a restare a contatto con il vivere e il morire in forma responso-abile su una Terra danneggiata e ferita” (Haraway 2019, pag 7). “Fare parentele” significa in questo contesto riconoscere e coltivare relazioni di cura, responsabilità e benessere reciproco con esseri ed entità diverse.

“Chthulucene. L’umana parentela” esplora quindi il tema della tentacolarità extra-famigliare fra esseri umani, come modalità creativa per stare in relazione al pianeta in questi tempi “confusi, torbidi e inquieti”, come Haraway li definisce (Haraway 2019, pag 7). La performance risponde all’invito di Orlando che in questa sua undicesima edizione si chiede – proprio sotto il segno delle riflessioni di Haraway – come moltiplicare relazioni plurali, inventare famiglie e divenire pluralità.

Ho chiesto ad Alexandra Lagorio e Luca Barachetti di entrare dentro la trama sonora di “Chthulucene. L’umana parentela” per spiegare come hanno tradotto i temi legati all'interdipendenza e l'interconnessione di tutte le forme di vita dentro la loro performance sonora e musicale. Alexandra Lagorio e Luca Barachetti sono due musicisti-performer con esperienze e provenienze differenti accomunati da una comune ricerca dentro T¥RSO, collettivo musicale indipendente da loro fondato che esplora le relazioni tra musica, performance e moltiforme sonorità e che coinvolge diversi musicisti di spessore (www.tyrso.it). Alla performance “partecipano” anche le voci registrate della sottoscritta, di Enrico Ruggeri Zambaiti e di Sole Fontanella.

CP: Di cosa ‘parla’ la performance? Riuscite a raccontarne in passaggi principali?

LB: “Chthulucene. L'umana parentela" è una riscrittura della performance originaria "Chthulucene", entrambe nascono dagli ultimi scritti di Donna Haraway: questa nuova versione debutterà a Orlando. Se nella versione originaria la performance era, nella prima parte, un'elegia sonora alla terra infetta e nella seconda una rappresentazione sonora di quei "mostri" ctoni e tentacolari che per Donna Haraway possono essere una modalità di sopravvivenza in un pianeta infetto – i "mostri" sono tutto ciò che è vivente e non vivente ma extra-umano; in questa nuova versione rimane identica la prima parte e cambia in modo sensibile e significativo la seconda, che sarà una rappresentazione sonora di quella che chiamiamo "melancolia". Una parola in cui racchiudiamo una serie di conseguenze psico-esistenziali date dal mondo dis-umano (e quindi ancora una volta infetto): la malinconia, la depressione, il burnout e via dicendo. Il tutto sfocia in una sorta di radura sonora di "rinascita", che coincide con il record vocale di una mia poesia "Simpoietico", anch'essa riscritta per questa nuova versione di "Chthulucene". Riassumendo: possiamo contrapporre al nostro tempo esistenzialmente infetto l’interdipendenza con l'Altro-umano, al di là di strutture culturali tipiche occidentali, come la famiglia, che spesso è tutt'altro che un aiuto nel vivere il contemporaneo.

CP: A proposito di famiglie e parentele, il vostro è un discorso sonoro sulla tentacolarità extra-famigliare. Come, quindi, questo “fare parentele” si traduce in suoni, musica, vibrazioni, rumori, vocabolari rumoros-musicali?

AL: Penso che a livello sonoro quello che meglio può rappresentare la tentacolarità extra-famigliare, le parentele, sia proprio il legame tra il suono che produce la chitarra e quello che produce la carriola. Da una parte abbiamo delle melodie (anche se a volte un po' storte), un suono più confortante e a cui siamo abituati, mentre dall'altro c'è la carriola che viene suonata in un modo inaspettato: non viene percossa ma proprio "suonata" producendo rumori diversi, talvolta profondi altre volte acuti. Alcune volte proprio non ci si crede che alcuni suoni siano fatti con la carriola! Eppure, questi due oggetti così diversi e apparentemente appartenenti a mondi lontanissimi si incontro e stabiliscono una relazione profonda, comunicano, entrano in relazione tra loro. Alla fine della performance si scopre che riescono ad essere in armonia tra loro, anche se non appartenenti non dico alla stessa famiglia di strumenti, ma proprio alla stessa famiglia di "oggetti".

LB: Aggiungo una piccola cosa tecnica: questo dialogo avviene sia nella prima che nella seconda parte; quindi, quando di fatto stiamo suonando (rappresentando) due realtà negative (il mondo infetto, la melanconia). Nella seconda però io, con i microfoni a contatto della mia carriola, che sono oggetti molto sensibili al suono, anche quello non prodotto dalla carriola, cerco di "catturare" e processare alcuni suoni della chitarra. Ciò avviene in modo non sempre uguale, perché le due parti sono improvvisative; quindi, certe volte il risultato è migliore a livello sonoro. Ci tengo a dire che nel suonare la mia carriola preparata non uso elettronica digitale, ma solo oggetti ed effetti di chitarra.

CP: Cosa intendi quando dici ‘catturare i suoni della chitarra’?

LB: Il microfono a contatto prende il suono della chitarra, quando mi accorgo che è un suono interessante, evocativo faccio partire una registrazione, un campionamento di quel suono e poi, in base a come è, lo manipolo con i pedali che utilizzo per la carriola. Va sottolineato che suoniamo in cuffia, quindi c'è un rapporto più "vicino", profondo e isolante verso le sonorità che reciprocamente produciamo.

CP: Intendendo l’improvvisazione come un’arte esplorativa che si basa su una pratica e non come qualcosa di estemporaneo, il dialogo tra questi due strumenti è in ogni performance improvvisato? Come ci navigate voi dentro a quest’improvvisazione come essere umani? Cosa sentite? Com’è questo viaggio?

LB: All'interno delle due cornici che abbiamo descritto prima, e tenendo conto di cosa vogliamo rappresentare a livello sonoro, le due parti internamente sono improvvisative. È di fatto una pratica: detta in parole povere è la pratica del "vediamo cosa succede se faccio così", è una forma di esplorazione delle possibilità della chitarra e della carriola; se ci pensiamo bene, è anche una forma di trascendenza materiale e terrena, è il continuo tentativo di raggiungere un'inaspettata e sorprendente (prima di tutto per noi) utopia sonora, utopia sonora che è sicuramente più manifesta nel finale, dove a fare da padrone sono la chitarra e i tubi sonori corrugati, una sorta di marchio che chiude entrambe le performance.

AL: Personalmente è un viaggio che richiede una grande concentrazione e un attento ascolto dell'altro. Occorre concentrazione intesa come essere completamente presenti nel gesto del suonare. L'ascolto dell'altro è necessario invece per creare quella relazione sonora di cui parlavo prima. Occorre guardarsi, capire e "sentire" cosa sta facendo l'altro in modo da creare risposte e intrecci sonori che abbiano un significato non solo concettuale ma anche profondo ed emotivo.

CP: Parliamo di malinconia, come la malinconia può essere generativa? Chi sono i mostri interiori?

AL: La malinconia è generativa. Uscendo completamente dall’ambito in cui ci stiamo muovendo, mi viene in mente la famosa battuta di Bruno Lauzi "Quando sto bene esco, mica mi metto a scrivere canzoni!". Diciamo che tutto quello che è dolore, malessere, malinconia, può essere "spurgato" fuori in senso generativo sottoforma di bellezza o di qualcosa che prova ad avvicinarsi ad essa. Si prova a liberarsi da una sensazione negativa, provandola a condividere e trasformandola in qualcosa d'altro, qualcosa che invece di isolare, può creare emozioni e quindi sentimenti di vicinanza con l'altro, di legame, o se vogliamo, ancora, di parentele. Per quanto riguarda i mostri interiori devo dire che sono stata un po' in difficoltà. Era molto facile per me pensare ai mostri "esteriori" (da grande appassionata di Lovecraft): quegli immaginari, da incubo, ma anche quelli reali del nostro tempo. Più difficile avere a che fare con i mostri interiori che ci obbligano a fare i conti sul modo in cui viviamo. Per me i mostri interiori sono l'ansia, il senso di inadeguatezza, le paure, tutto quello insomma che ci impedisce di essere completamente liberi.

LB: Quello che suoniamo cerca di rappresentare due piani: uno concettuale e uno emotivo. Ma va detto che dei due prevale quello emotivo, saremmo quantomeno dei presuntosi a volter rappresentare con la musica il pensiero complesso di Donna Haraway: con ciò che suoniamo cerchiamo soprattutto di evocare degli stati d'animo, che evolvono. Per la parte concettuale ci vengono in aiuto le parole. Per "Chthulucene. L'umana parentela" ci saranno quattro momenti di record vocali: un verso di Shakespeare (detto da Enrico Ruggeri Zambaiti), collegato a uno stralcio del libro di Haraway "Chthulucene. Sopravvivere a un pianeta infetti" (detto da te), una mia poesia intitolata "Simpoietico" (detta da Sole Fontanella) e un ritorno del verso di Shakespeare iniziale (detto ancora da te).

CP: Leggo dalla presentazione della performane che alla fine ci sarà un “gioco di filo”, che simboleggia proprio questa generazione parentale fra persone, i fili che traducono la parentela perché sono importanti?

LB: Ci sarà una versione simbolica di quello che Haraway chiama "gioco di filo".  È una cosa molto semplice quanto, crediamo, intensa: rappresenta l'interdipendenza che c'è fra le persone, tutte, da quelle più vicine a noi a quelle più lontane. Non diciamo di più, anche perché la riuscita del "gioco di filo" dipende da quante persone ci sono… in ogni caso ci siamo muniti di ottanta metri di filo.

CP: Cosa significa per voi partecipare a Orlando?

LB: Quando Elisabetta Consonni è venuta a vedere la nostra performance "Chthulucene" eravamo molto felici. Quando poi ci ha detto che avremmo potuto partecipare a questa edizione del festival ancora di più: seguiamo e amiamo Orlando da anni, è incredibile che a Bergamo avvenga una cosa del genere. Oltre a ciò, però, Orlando è stato importante perché ci ha chiesto di muovere la nostra performance verso una maggiore affinità con il tema del festival di quest'anno, le parentele extra-famigliari. Senza Orlando – che per noi è una stupefacente punto di arrivo e ripartenza: ci dà una conferma importante di quello che facciamo – “Chthulucene. L'umana parentela", molto semplicemente, non esisterebbe. Il nostro sarà il primo appuntamento del festival, poi torneremo spettatori. Non prima di avere ringraziato per questa possibilità.

AL: Orlando è un festival che ci ha dato molto come spettatori in questi anni, speriamo questa volta di restituire noi qualcosa di questo al festival. Siamo molto emozionati!

La performance che dura circa 40 minuti, si terrà venerdì 3 Maggio alle ore 19, a Bergamo presso la Sala dell’Orologio in piazza della Libertà, 7. Prima della performance ci sarà un aperitivo di benvenuto. Visto che i posti sono limitati è consigliata la prenotazione. È possibile prenotare scrivendo a prenotazioni@orlandofestival.it.

Bibliografia

Haraway, D. J. (2019). Chthulucene: Sopravvivere su un pianeta infetto. Nero.
Haraway, D. J. (2019). Le promesse dei mostri. Una politica rigeneratrice per l'alterità inappropriata. DeriveApprodi
Zoja, L. (2009). La morte del prossimo. Einaudi.
Han B. (2017). L’espulsione dell’altro. Nottetempo

 Il Corpo Politico di “Stone” di Luca Barachetti

Che cosa c'è oggi di più politico del corpo? Il corpo discusso, oppresso, datificato, addirittura crioconservato per un possibile futuro immortale. Il corpo che segna un'identità obliqua, mai veramente ferma e dunque necessaria di diritti, di tutela e comprensione.
È il corpo, come strumento sonante e dissonante, come presenza scenica di densità rara, quello di Laura Mola, unica protagonista dello spettacolo teatrale “Stone”, riscrittura per il palcoscenico che Carmen Pellegrinelli fa di “Stone Butch Blues” – romanzo culto del 1993 scritto dall’attivista lesbica Leslie Feinberg – per il festival Orlando.
Gli spazi intimi di Teatro Caverna portano il pubblico nell'America fra primo e secondo Novecento, '68 compreso. Fra locali gay, case improbabili, storie di sesso e d'amore attraversate da Jess Goldberg, protagonista di una biografia immaginaria che è una sorta di bildungsroman in technicolor. Con una colonna sonora calibrata e fondamentale per la riuscita della narrazione, una scenografia minimale che in certi momenti sfiora l'astrattismo e un testo che è un intenso saliscendi emotivo. Il risultato è una radura di scoperte all'interno della quale Jess cresce, assaggia i manganelli (della polizia) e trova la solidarietà di vittime come lei. Tutt'altro che disposte ad arrendersi, ma in cerca della propria quadra esistenziale in una storia nella quale l'intersezionalità di classismo, razzismo, capitalismo, omofobia e transfobia si mescolano, riportando il pubblico al contemporaneo e andando dentro e oltre la questione LGBTQIA+.
Avrebbe meno forza di quella che ha “Stone” se non vibrasse di -ismi e fobie d'amara attualità e se il corpo al centro della scena non fosse quello di Mola, rara specie di strumento vivente di muscoli, nervi ed espressività al servizio di un testo drammatico e ironico, disperato e vitale, dove ogni ostacolo diventa un passo verso un finale inevitabilmente catartico.
Nel suo unire personale e politico, “Stone” ribadisce che il personale è politico e che i diritti civili e sociali devono andare di pari passo: le rivendicazioni LGBTQIA+ hanno meno peso se non sono contestualizzate in questo tardo capitalismo agli ultimi (violenti) colpi di coda.